Dopo una lunga assenza per la mole di progetti che si è riversata sulla scrivania nel 2021, torno sul blog con una riflessione sull’inclusività della comunicazione in ambito medico.
Vaccini, sintomi e comunicazione
Di tanto in tanto presto volontariato nel centro vaccinale del mio paese: aiuto le persone che desiderano vaccinarsi a compilare i moduli necessari prima del colloquio con il medico. Come è prevedibile, il pubblico è molto variegato, per età, cultura, provenienza geografica, capacità linguistiche e scolarizzazione.
Quello che osservo spesso è che le persone fanno fatica a comprendere i quesiti del modulo da compilare. Ci sono frasi scritte in modo un po’ ambiguo, ma soprattutto tanti – troppi – termini tecnici che secondo me non dovrebbero esserci.
È vero che in teoria il modulo andrebbe compilato insieme al medico del centro vaccinale.
Nella pratica, almeno nella Regione Piemonte, sono i volontari che aiutano nella compilazione, PRIMA che le persone che devono vaccinarsi arrivino dal medico. Medico al quale possono fare tutte le domande che vogliono, ma arrivando con un modulo in genere già compilato.
Grazie al mio lavoro di traduttrice medica sono in grado di comprendere i termini più tecnici e di spiegarli con parole più semplici a chi non le capisce, ma non tutti coloro che prestano assistenza sono in grado di farlo.
Nei miei corsi sulla traduzione medica parlo spesso di inclusività, in particolar modo adesso che sto seguendo il corso di STL sulla scrittura inclusiva e grazie alle riflessioni e ai suggerimenti di Alice Orrù, Vera Gheno e Annamaria Anelli.
Quando si parla di inclusività si pensa spesso alla discriminazione di genere, alla comunità LGBT+, al colore della pelle. Si dimentica però che l’inclusività ha un significato più ampio e nella comunicazione medica deve essere una componente fondamentale.
Un paziente informato è in grado di scegliere in modo consapevole e di partecipare attivamente e con maggiore aderenza al proprio processo di cura. Deve però essere in grado di capire cosa gli si sta dicendo, senza sentirsi in una condizione di inferiorità dovuta all’ignoranza dei termini medici.
Un paziente, per il semplice fatto di essere malato, si trova in una condizione di inferiorità psicologica e spesso anche fisica. Può anche avere una perfetta padronanza della lingua italiana, due lauree e un’intelligenza straordinaria, ma di fronte alla malattia è debole e come tale deve essere trattato in modo inclusivo.
Nel modulo vaccinale “incriminato”, termini come artralgie o linfoadenomegalia sono termini tecnici che potevano essere sostituiti benissimo da equivalenti di più facile comprensione: dolore articolare/alle articolazioni, ingrossamento dei linfonodi. Per fare un altro esempio, in tutti i mezzi di comunicazione si parla di tamponi per verificare l’eventuale positività al COVID, ma nel modulo questi vengono chiamati “test COVID” e non tutti collegano i due termini e capiscono che si tratta della stessa cosa.
Il modulo vaccinale e i suoi termini tecnici
Sono partita, per le mie riflessioni, dal modulo vaccinale, ma un altro esempio lampante sono i referti dei medici specialisti: pieni di sigle, abbreviazioni, termini molto tecnici e parole ambigue, che rendono difficile al destinatario del referto (il paziente, prima di tutto) capire cos’ha e se/quanto è grave. L’obiezione è che il medico scrive per i colleghi medici, ma un referto è un documento del paziente e per il paziente, che deve essere in grado di capire lo stato della propria salute.
Con il COVID, volente o nolente molti termini medici specialistici sono entrati a far parte del nostro linguaggio comune e quotidiano. Ma quanti di noi conoscono il significato di queste parole? Quanti sono in grado di usarle a proposito e con cognizione di causa?
Comunicazione medica inclusiva
All’estero, in particolare negli Stati Uniti, esistono movimenti di pazienti che rivendicano il diritto di comprendere i documenti relativi alla propria salute e che chiedono un maggiore rispetto. Rispetto che passa da una scrittura più semplice e chiara, che permetta a chiunque di conoscere il proprio stato di salute e poter prendere decisioni informate.
In Italia siamo evidentemente ancora molto lontani. La professione medica è ancora vista come qualcosa di irraggiungibile e una scrittura altisonante, gergale (nel senso che usa il gergo medico, che solo i professionisti sanitari conoscono), difficile alimenta questa distanza tra medico e paziente. Proprio in una situazione che richiederebbe invece avvicinamento, rispetto per la condizione di inferiorità fisica e psicologica, il tentativo di far comprendere appieno al paziente la sua condizione e di metterlo nella situazione di poter dire eventualmente la sua, dopo aver ricevuto le giuste e necessarie informazioni.
E poi davvero un medico si sentirebbe offeso da un referto scritto con un linguaggio semplice e chiaro?
Questo tenere le distanze tra il “medico che sa” e il “paziente ignorante” mi ha sempre dato fastidio, oggi che lavoro sui testi medici ancora di più. Questa distanza genera anche malintesi e la convinzione che qualcuno ci voglia tenere nascosto qualcosa e sappiamo bene adesso quanto un tale atteggiamento possa creare danni.
Il rispetto per il paziente passa anche dall’inclusività. E l’inclusività può fare solo bene alla comunicazione, anche e soprattutto alla comunicazione medica.
* Poiché parlo di inclusività vi sembrerà strano che non uso simboli come 3, lo schwa, gli asterischi, ecc. per evitare il maschile sovraesteso. La mia è una scelta dettata sia dal fatto che sto imparando a usare correttamente questi simboli e al momento preferisco utilizzare il maschile sovraesteso. Inoltre, come mi ha fatto notare Alice Orrù in una delle sue newsletter, l’uso di questi simboli potrebbe essere un ostacolo a chi utilizza un lettore vocale per usufruire dei contenuti in rete. Ho scelto il male minore, quindi, o almeno credo.