C’era una volta il cappotto buono, quello fatto per durare tante stagioni, magari fatto a mano dalla sarta. E la camicetta di seta o il completo di sartoria. Capi di buona qualità fatti per essere indossati a lungo. Poi è arrivata la cosiddetta fast fashion, la moda usa e getta o quasi. Capi di qualità inferiore, spesso composti da fibre sintetiche miste, collezioni nuove ogni mese o addirittura ogni settimana. La moda cambia in fretta e il consumatore deve adeguarsi. Questo nuovo approccio ai vestiti comporta un numero elevato di acquisti di capi spesso di scarsa qualità e a prezzi bassi. Capi fatti per durare qualche mese poi gettati, che non si possono nemmeno donare alle associazioni di beneficenza perché rovinati. Tanti sprechi, tanti rifiuti.
Moda e inquinamento
La produzione tessile, in particolare di polimeri sintetici, utilizza grandi quantità di risorse naturali non rinnovabili, tra cui enormi quantità di acqua, ed è uno dei grandi contributori dell’emergenza climatica. I tessili non più indossati da parte loro aumentano i volumi dei rifiuti, che spesso non hanno altre strade se non quella dell’inceneritore.
Per ridurre l’impatto ambientale del settore tessile e della moda dovremmo produrre meno, comprare meno e riutilizzare di più i capi già in nostro possesso o dare loro una seconda vita. Anche perché il problema è che da una maglietta non è possibile tornare indietro alle materie prime. E anche se l’attuale pandemia ha imposto un duro stop al settore, quando si tornerà a una situazione di “normalità” la moda tornerà a far parlare di sé. In fondo la vita che conduciamo ci richiede di vestirci e di vestirci in un certo modo.
La strada del riciclo passa dalla chimica
Che fare allora? La strada del riciclo è partita, ma presenta ancora molte problematiche.
Per cominciare, gli indumenti riciclati sono riciclati in produzioni di valore inferiore tipo stracci, imbottiture e materiali per isolamento. Ad oggi meno dell’1% di materiale riciclato finisce nei vestiti nuovi e anche le collezioni in materiali riciclati contengono solo una piccola percentuale di fibre riciclate, mescolate a fibre vergini.
Il problema principale è la qualità delle fibre, che dopo le lavorazioni è minore. Le fibre sono più corte, danneggiate dall’uso e dai lavaggi, e non possono più essere utilizzate per produrre un capo di qualità.
Quando la composizione dei tessuti è mista le cose si complicano, poiché è laborioso separare i vari tipi di fibra. Queste lavorazioni inoltre sono molto dispendiose e non rendono conveniente il riciclo rispetto alla produzione di fibre nuove e dalle prestazioni ottimali. Insomma, motivazioni ambientaliste a parte, chi ce lo fa fare?
La chimica può entrare nel processo di produzione dei tessili per meglio catturare il valore delle risorse derivanti dagli indumenti a fine vita ed evitare che questi finiscano in discarica o all’inceneritore. È solo passando dalla chimica quindi che possiamo riottenere materie prime di valore e chiudere il cerchio nel settore del riciclo tessile. Ecco che anche nel settore della moda la chimica può essere buona.
La chimica buona in aiuto al settore della moda
Per produrre le fibre riciclate occorre per prima cosa rompere chimicamente le fibre nei blocchi chimici costitutivi e “riassemblarli” in fibre di prestazioni uguali o migliori a quelle originali. Questa opzione però è difficile sia tecnicamente sia dal punto di vista economico e produce nuove fibre che si rivelano troppo costose per il mercato. Fibre diverse infatti richiedono sostanze chimiche diverse per la loro rottura, per cui il primo passo è la separazione e classificazione delle fibre, un passo tanto necessario quanto sfidante. La divisione è per lo più fatta a mano e richiede quindi un tempo molto lungo, anche se sono in fase di sviluppo sistemi automatici che permettono di velocizzarla. Inoltre, molte fibre sembrano uguali anche se hanno composizioni diverse, per cui possono essere separate non meccanicamente ma solo con un metodo chimico.
Anche in caso di tessuti costituiti interamente da un solo filato, il riciclaggio dei tessuti deve per prima cosa rimuovere i componenti non tessuti e le tinture. Ad esempio, per il riciclaggio chimico del cotone tutti i progetti pilota hanno le stesse fasi: rimozione meccanica di cerniere, bottoni, targhette, lavaggio per rimuovere tinture, dissoluzione della cellulosa del cotone in un solvente e poi filatura di nuove fibre dalla polpa di cellulosa prodotta.
Il polycotton (miscela di fibre di cotone e poliestere filate insieme), ad esempio, richiede la separazione di due polimeri (la cellulosa e il poliestere) con solubilità diverse. Una volta separate le fibre, è possibile lavorare il poliestere e ottenere la sostanza vergine che può essere usata negli impianti esistenti. Dal cotone invece si ottiene una cellulosa molto simile alla cellulosa di legno che può essere usata per altri processi di produzione.
Un altro processo di riciclaggio del polycotton usa l’idrolisi con enzimi.
Inoltre, aziende come la Sodra, azienda svedese di produzione di cellulosa dalle foreste, riciclano il polycotton per produrre cellulosa.
Esempi virtuosi
Molte aziende nel mondo stanno sviluppando metodi per il riciclo chimico delle fibre tessili, che permetta la produzione di fibre di qualità uguale o superiore a quelle di partenza, limitando anche gli effetti negativi sull’ambiente. Quindi un prodotto di qualità superiore senza un eccessivo impatto ambientale.
L’azienda finldandese Infinited Fiber utilizza un metodo chimico diverso per trattare il cotone e la cellulosa derivante e usa il processo di produzione della viscosa per realizzare fibre rigenerate. Un nuovo prodotto usando una tecnologia esistente: è infatti possibile utilizzare i vecchi impianti di produzione della viscosa, ma senza gli aspetti negativi per l’ambiente come l’uso del disolfuro di carbonio. La consistenza e la resistenza delle fibre ottenute sono confrontabili con quelle del cotone vergine.
Nel caso di fibre sintetiche sono in fase di sviluppo processi chimici che ne permettono la separazione in base a caratteristiche chimico-fisiche. L’ente di ricerca italiano Tecnotessile, per citarne una, ha sviluppato un processo non invasivo che separa le fibre di natura termoplastica dalle fibre di altra natura: in altre parole separa poliestere, nylon, elastomeri dalle fibre naturali o artificiali (lane, cotoni, viscosa, canapa e altre). Questa nuova tecnologia fa sì che le materie termoplastiche vengono recuperate e fornite direttamente sotto forma di granuli che possono essere riutilizzati in processi industriali di stampaggio anche destinati ad altri settori industriali. Le fibre naturali o artificiali invece devono subire gli eventuali processi di sfilacciatura prima di ottenere nuovamente una fibra che può essere impiegata in nuovi cicli di lavorazione tessili.
Le catene di produzione di indumenti a livello mondiale cominciano ad avere una maggiore sensibilità per l’argomento e a produrre collezioni o capi realizzati con queste “nuove” fibre riciclate, e non è detto che l’epidemia in corso e le sue conseguenze non accelerino questa tendenza. Il settore del riciclaggio dei tessuti è in aumento e potrebbe seguire l’esempio del riciclaggio della carta che ormai è consolidato.
Grazie alle nuove tecnologie e all’uso della chimica è dunque possibile diminuire l’impatto del settore tessile sull’ambiente producendo di meno e riciclando fibre non più utilizzabili, ottenendo prodotti di qualità eccellente con processi sempre più attenti all’impatto ambientale.
*Le aziende indicate nell’articolo non mi hanno richiesto alcun tipo di pubblicità, né gratuita né tantomeno a pagamento. Ho voluto citare alcuni progetti innovativi e queste sono alcune delle aziende che li stanno portando avanti.