Nel post precedente abbiamo visto quando è il caso di insospettirci davanti ai risultati di uno studio clinico o scientifico. In questo nuovo articolo voglio darvi alcune indicazioni più tecniche, soprattutto per evitare facili entusiasmi quando sono annunciate cure mediche innovative, alternative, risolutive.
La ricerca medica evolve alla velocità della luce, anche se ai non addetti ai lavori, e ai malati soprattutto, questo non è evidente. Le cure miracolose purtroppo non esistono (in questi mesi ce ne siamo accorti), né vengono nascoste per motivi commerciali o di puro masochismo. Esempi di queste cure negli ultimi 10-20 anni (il metodo Di Bella, il metodo Hamer, il caso Stamina) hanno poi rivelato i loro imbrogli, spesso a scapito di malati che si sono fidati.
Vediamo allora quando è il caso di andare cauti e di approfondire i concetti che ci vengono regalati.
Lo studio ha un basso numero di partecipanti
Tutto dipende dal tipo di studio, dalla malattia che viene esaminata, dal numero di malati. Gli studi però cercano di avere un numero di partecipanti alto, per avere dati che possono essere analizzati da un punto di vista statistico.
Nel brevetto che ho tradotto e dal quale sono partite queste riflessioni, alcuni studi prevedevano un solo partecipante. È chiaro che se il farmaco ha un qualche effetto su quel solo partecipante non è detto che abbia effetti positivi su tutti i pazienti. Può essere un caso che l’esito sia stato positivo, oppure il risultato può non essere del tutto obiettivo.
Un basso numero di partecipanti, quindi pochi risultati da analizzare, ha due implicazioni principali. Da una parte, la variabilità statistica è alta.
Un esempio. Uno studio su un nuovo farmaco contro la gotta ci dice che il farmaco è efficace nel 60% dei casi. Il dato percentuale è questo, ma i risultati effettivi cambiano se il farmaco ha avuto effetto per 6 pazienti su 10 o per 600 pazienti su 1000. È più facile che con pochi partecipanti allo studio, questi dati siano variabili, rispetto a un campione di 1000 pazienti. Anche se la percentuale è la stessa, se è stata calcolata su 1000 pazienti, l’affidabilità del risultato è maggiore.
Un corrispondente possiamo trovarlo adesso negli studi sugli effetti di determinati medicinali contro la COVID-19, in questa situazione però il numero puttosto basso dei partecipanti è dettato dalle circostanze (virus sconosciuto, desiderio di trovare in fretta una cura per arginare i contagi, pochi pazienti adatti agli studi).
D’altro lato, posso avere l’effetto opposto: un basso numero di partecipanti può portare a una scarsa riuscita dello studio. Se ho pochi dati da valutare e confrontare, sarà più difficile capire se il farmaco è davvero efficace o se i risultati ottenuti sono per lo più casuali. Lo scarso numero di pazienti costituisce ad esempio la più grande difficoltà nello studio delle malattie rare e di farmaci che possano guarire o migliorare queste patologie.
Assenza di risultati numerici o oggettivi
Uno studio clinico o scientifico deve presentare risultati numerici chiari o valutazioni oggettive. Solo da questi dati è possibile trarre delle conclusioni almeno formalmente corrette. Uno dei trucchi che il sedicente protocollo Stamina usava era l’uso di testimonianze e valutazioni soggettive. Dire che un bambino dopo l’infusione di cellule staminali parlava di più del giorno prima o si sentiva meglio non è un risultato oggettivo. Su che base il paziente si sente “meglio”? Non è detto che da tanti numeri si traggano sempre le conclusioni esatte. Al contrario però, non è possibile ottenere delle conclusioni , fare dei ragionamenti se non ci sono dati oggettivi su cui basarsi.
Il procedimento non è ripetibile
Quando uno studio viene esaminato e valutato da altri membri della comunità scientifica, grande importanza è data al fatto che il procedimento descritto sia ripetibile e riproducibile in modo sempre uguale, da persone diverse, in luoghi diversi, per dare risultati analoghi. Se allo scarso numero di dati aggiungiamo variazioni al procedimento ogni volta che questo è stato ripetuto, otteniamo come risultato un minestrone di dati confusi da cui non è possibile trarre nessuna conclusione seria. Arriviamo a un risultato simile anche se il procedimento è descritto in modo vago e fumoso. “Aggiungere acqua calda”: quanta acqua? a quanti gradi centrigradi? in quanto tempo aggiungerla? e così via.
Uno stesso farmaco va bene per tutto
Per finire, l’aspetto che forse più mi ha sconvolto nel brevetto da cui tutto è partito, è che un farmaco che è stato studiato per una patologia, ha poi dimostrato successo (i dati però non erano presentati) per varie altre malattie anche molto diverse e non solo per l’uomo, ma anche per cani, gatti e altri animali. Ci sono farmaci, principi attivi usati per curare varie malattie diverse. C’è anche l’uso dei cosiddetti farmaci a uso compassionevole, vale a dire farmaci che vengono solitamente usati per una malattia e sono usati anche per cercare di migliorare le condizioni di vita di persone affette da malattie rare. Questi casi esistono, sono documentati e soprattutto sono supportati da prove scientifiche ed evidenze. Il fatto che un farmaco specifico per una particolare malattia possa essere usato con successo per qualcosa di totalmente diverso deve far venire dei dubbi. Se esiste la possibilità di usare uno stesso medicinale per curare più malattie ben venga, a patto che la sua efficacia sia dimostrata chiaramente per tutte le malattie che dovrebbe curare. Altrimenti attenzione.
Pensiamo a tutti i medicinali destinati alla cura di altre patologie che sono stati testati contro la COVID e che sembravano promettenti, salvo poi rivelarsi poco efficaci, se non pericolosi.
Questi due articoli hanno lo scopo non di far diventare tutti medici e scienziati, ma di farci diventare scettici e dubbiosi.
Non è detto che un articolo scritto male, uno studio presentato in modo confuso siano delle truffe, a volte è colpa solo dell’incapacità dell’autore di comunicare in modo chiaro. In questi casi però è meglio sentire più opinioni serie e autorevoli, prima di farci prendere dall’entusiasmo o, peggio, di affidarci a una cura dai risultati dubbi.
Chi parla di scienza ha il dovere di comunicare in modo chiaro, perché chiunque legge possa comprendere l’argomento e farsi un’idea basata su dati corretti e non falsati per vari scopi. Chi mi conosce sa che sono allergica alle bufale e alle notizie false. Questi articoli vogliono essere un contributo per aiutare anche chi non ha studi scientifici o medici a smascherarle o almeno a dubitare.